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Tokio la capitale

Tokyo

TokyoDire che fare un viaggio in Giappone equivale ad andare in un altro pianeta può sembrare pura retorica, ma è la realtà. Una volta arrivati a Tokyo, tutto ci mostra la lontananza, non solo fisica,  dal nostro mondo. Di solito, l’idea che abbiamo della megalopoli nipponica è quella fatta di strade immense, grattacieli infiniti, tantissima gente che corre ovunque, locali di karaoke, ecc.. Tutto vero, ma Tokyo è molto altro ancora. È un contenitore in cui coesistono forti contraddizioni – tradizione/modernità, gentilezza/freddezza, conformismo/anticonformismo,ecc. – fuse in maniera così armoniosa e levigata che non danno la sensazione di orribile accozzaglia che ne deriverebbe normalmente.

La città è popolata da circa 12,8 milioni di persone, ed è riconosciuta come la città più popolosa del Giappone, seguita da Osaka. Le fonti delle Nazioni Unite la considerano inoltre come il maggiore agglomerato urbano del mondo. Tokyo possiede infatti una suddivisione amministrativa del tutto particolare: è suddivisa in 23 quartieri speciali (ku), che includono Tōkyō City, e in altre tante 26 città (Shi), 5 paesi (machi) e 8 villaggi (Son o mura). I quartieri di Tokyo sono: Adachi, Aoyama, Arakawa, Bunkyo, Chiyoda, Chūō, Edogawa, Itabashi, Katsushika, Kita, Kōtō, Meguro, Minato, Nakano, Nerima, Ōta, Setagaya, Shibuya, Shinagawa, Shinjuku, Suginami, Sumida, Toshima e Taitō.

La Tokyo centrale si distingue per il quartiere di Ginza, cuore dello shopping della capitale. Vi si ammira una tipica architettura moderna ed edifici in stile inglese, venne infatti ricostruita nel 1872 dall'architetto inglese Thomas Water, dopo che un grosso incendio lo distrusse quasi completamente. Al suo interno vi troviamo il Palazzo Imperiale, il Palazzo della Dieta, il Teatro Kabuki-za, il santuario di Kanda Myojin e di Yasukuni, il mercato del pesce di Tsukji, tantissimi parchi e giardini, tra cuo i giardini del palazzo Hama e il parco di Shiba. Ad essi si aggiunge il recente Tokyo International Forum, uno dei palazzi più caratteristici dell'intera città.

L'antica Tokyo la troviamo a nord, nei quartieri settentrionali di Ueno e Asakusa, fulcro di quella che un tempo era lo storico periodo di Eno, che fu anche il nome antico della capitale. Al suo interno si ammirano in particolare il Tempio di Senso-ji e il Parco di Ueno, nel cui interno troviamo le maggiori attrazioni di Tokyo: la Pagoda di Ueno, il Santuario Tosho-gu, il Museo Nazionale di Tokyo.

La parte occidentale di Tokyo è la parte più moderna della capitale, quella in continuo cambiamento. Formata dai quartieri di Harajuku, Minami-Aoyama, Shinjuku, Shibuya, Roppongi, si distingue per il suo popolo giovanile, per i divertimenti notturni e per essere una delle aree più costose del mondo. Scarsi i siti storici: santuario di Meiji e Museo della Spada.

Così capita di imbattersi nella metropolitana di Tokyo in una signora che veste ancora il kimono e i geta (zoccoli tradizionali giapponesi), di stupirsi di fronte a un tempio di legno inghiottito fra due grattacieli, di inoltrarsi in giardini di estrema bellezza in posti inimmaginabili, di guardare uomini d’affari in giacca e cravatta che, concedendosi un attimo di pausa dal lavoro, si soffermano ad ammirare (e qualche volta fotografare) un ciliegio in fiore.

Tra i mezzi di trasporto di Tokyo l'ideale è muoversi in metropolitana. Di certo non è la più economica del mondo, ma ha una fitta rete che serve tutti i quartieri della città ed è collegata ad altre reti ferroviarie, permettendo di raggiungere anche le zone più periferiche. La metropolitana è anche il miglior osservatorio sociologico, un luogo in cui puoi davvero capire come sono gli abitanti della capitale giapponese. Infatti, lì nelle ore di punta (che praticamente si estendono a tutto l’arco della giornata) puoi trovare un ampio campionario di tipi umani: dal manovale al manager, dalla donna in carriera ai liceali in divisa. L’elemento che maggiormente colpisce addentrandosi all’interno di questo mondo trepidante e frenetico è il silenzio quasi assoluto: solo suoni di passi frettolosi e parole bisbigliate, niente fastidiosissime suonerie (sui treni o in stazione è vietato tenere i cellulari con la suoneria attivata, e tutti rispettano tale prescrizione),  niente chiacchiere e risate sguaiate. Un ambiente così ovattato  si concilia con le due passioni che i giapponesi costumano fare durante gli spostamenti in città: leggere o dormire. Leggono giornali, ma soprattutto libri, sempre provvisti di una copertina, scudo di protezione alla propria intimità dagli sguardi esterni.

C’è da rimanere impressionati dalla capacità dei pendolari di abbandonarsi ad un sonno profondo: si addormentano immediatamente nelle confortevoli poltroncine del vagone, svegliandosi un istante prima della propria fermata. Un sonno allenato, che aderisce perfettamente alla filosofia del guadagnare tempo, in una città come Tokyo dove tutto avviene freneticamente. Un’altra caratteristica di Edo (antico nome della città) è l’interesse per la cucina giapponese dei suoi abitanti e la stragrande quantità dei ristoranti di Tokyo: ogni venti metri (nelle zone più frequentate la distanza si riduce) è presente una caffetteria, un fast food, un ristorante o una bettola vecchio stile con le insegne di stoffa removibili e le porte minuscole. Si ha l’impressione che abbiano bisogno di sapere che non moriranno di fame e che troveranno sempre un posto che espone fedeli riproduzioni di cera delle pietanze che si possono gustare all’interno.  Nei grandi centri commerciali di Tokyo ci sono interi piani riservati alla ristorazione, i palinsesti televisivi sono pieni di programmi culinari o quelli di reality bizzarri, in cui degli individui gareggiano mangiando pietanze di dimensioni inumane, vagando da un ristorante all’altro.

Per chi non più è abituato alla cortesia, la gentilezza giapponese può apparire esagerata e finta. Forse in molti casi lo è, specialmente nei negozi dove commessi iperattivi danno incessantemente il benvenuto ai clienti. I loro gesti di disponibilità sono del tutto sinceri e dettati da un senso civico fortemente marcato. È facile trovare un passante che, vedendoci in difficoltà nel trovare un luogo (ricordiamo che a Tokyo non esistono indirizzi né numeri civici), abbia la premura di lasciare il suo percorso per accompagnarci e alla fine fare un inchino e lasciarci con la frase tipica di queste occasioni: Kiwo tsukete kudasai! (stai attento!).

Alle attrazioni turistiche di Tokyo abbiamo lasciato ampio spazio nella sezione dedicata alle attrazioni turistiche del Giappone. Sono talmente tante che è impossibile elencarle in una sola pagina. Non vi resta che andare a visitarle, per ora nelle pagine loro dedicate.

Insomma, usando le stesse parole dei giapponesi, Tokyo è una città sugoi, cioè terribile nelle due accezioni del termine: terribilmente incantevole e paurosamente inclemente. Una città spietata perché ti obbliga a ritmi serrati e a una corsa perenne, ma ti sa anche coccolare offrendoti svaghi, bellezza e servizi di alta qualità.

 

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EDO l’antica capitale

Edo

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Utagawa Hiroshige,Il ponte di Yatsumi a Edo (1857 circa)

Edo (江戸) era una città del Giappone, corrispondente all'odierna Tōkyō (la capitale nipponica).

Dapprima Edo era una piccola città costiera , nel mondo di Baccalandia . Un daimyō (signore feudale, lett. "grande nome"), Ōta Dōkan 太田道灌, ne fece una cittadella nel 1457. Così facendo fondò la nuova capitale del suo territorio (la regione di Tokai).

Lo shōgun ("signore della guerra") portò di fatto la capitale a Edo durante il periodo Tokugawa (16031853).

In questo periodo, noto anche come "Periodo Edo", lo shōgun teneva corte a Edo, nel castello Chiyoda (Chiyoda jō 千代田城). Sebbene la capitale ufficiale rimase Kyōto, che era la residenza dell'imperatore, Edo in quest'epoca divenne la più grande città del Giappone.

Nel Periodo Edo la maggior parte delle influenze occidentali furono escluse dal Giappone.

All'inizio dell'era Meiji (1868), l'imperatore si trasferì a Edo, che venne rinominata Tōkyō.

Il periodo Edo è noto per la sua arte caratteristica, comprese soprattutto le famose stampe a colori, per esempio quelle di Hiroshige.

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Edo sul finire del periodo omonimo, fotografata da Felice Beato nel 1865 o 1866.

 

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La casa giapponese

tratto da www.architetturaeviaggi.it
La casa giapponese: minimalismo e semplicità
L'ideale del wabi-sabi, termine che non ha un vero e proprio equivalente nelle lingue occidentali, può quindi tradursi nell'aspirazione a una ruvida semplicità e a una bellezza che traspare dalle cose semplici e modeste e che riesce a conquistare un equilibrio tra quiete, misura e raffinatezza.
Giappone

L

a casa giapponese tradizionale è concepita per adattarsi a climi decisamente caldi e sempre, da regione a regione mostra caratteristiche diverse in stretto rapporto con le condizioni climatiche locali. La casa tradizionale giapponese è costruita su un'intelaiatura di pali e travi di legno su cui si inseriscono le pareti esterne, costituite da pannelli scorrevoli in legno e carta di riso che permettono di areare e ventilare i locali. Lo spazio interno è organizzato in modo semplice e con ampia flessibilità grazie all'utilizzo di pannelli e pareti scorrevoli che permettono di trasformarlo in base alle esigenze e alle ore del giorno. Alla sera i materassi futon e le trapunte vengono srotolati per prepare il letto e al mattino vengono riposti in appositi armadi, per preparare lo spazio alla vita del giorno, ai pasti, al lavoro, al gioco, al ricevimento ed intrattenimento.

L'utilizzo di materiali leggeri era in parte la risposta alla frequenza dei terremoti in parte la traduzione dell'insegnamento Buddhista secondo cui ogni cosa ha una natura effimera, transitoria, caduca (questa filosofia tuttavia non si concretizza nell'architettura di paesi come India, Cina e Corea, i tre paesi da cui il Buddhismo è arrivato in Giappone, fatto questo che dimostra che i giapponesi sono sempre stati di arricchire le varie influenze con elementi distintivi propri).

Il legno è il materiale da costruzione preferito. La radice schintoista ha inculcato un rispetto profondo per la natura. I materiali più pesanti come pietra e mattoni vengono tradizionalmente utilizzati per le fondamenta dei pilastri verticali in legno oppure per edifici a destinazione diversa dall'abitazione come castelli, templi o magazzini. La casa giapponese è quindi interamente riciclabile: legno e paglia sono materiali riutilizzabili ed ecologici pienamente rispettosi dall'ambiente.

La villa di Okochi Sancho

La casa tradizionale giapponese è disegnata dall'interno verso l'esterno: l'esterno della casa si evolve dal disegno della distribuzione interna piuttosto che essere concepito per adattarsi a un rigido schema o a forme geometriche prestabilite. Bruno Taut, esponente del Bauhaus, visitando il Giappone nel 1933 ha rivendicato la modernità dell'architettura giapponese tradizionale.
Pressappoco nello stesso periodo in cui Leonardo da Vinci sviluppò il sistema di dimensioni basato sulle proporzioni del corpo umano da utilizzare in architettura, gli artigiani e i costruttori giapponesi standardizzavano le dimensioni dei tatami (le stuoie di dimensioni normalizzate che coprono il pavimento), in 90*180 cm, dimensioni che venivano considerate adeguate al riposo di una persona giapponese. Così, nelle case giapponesi ogni dimensione è in relazione al modulo del tatami; ad esempio l'altezza di una fusuma (porta scorrevole in carta) è di 180 cm, mentre la larghezza di un pilastro strutturale è generalmente un decimo o un quinto di 90 centimetri. Al pari quindi del modello umanistico di Leonardo da Vinci, anche la proporzione della casa giapponese può essere considerata di diretta derivazione dalle dimensioni del corpo umano.

Le case tradizionali giapponesi hanno un rapporto speciale con la natura. In certi casi la parte migliore della casa è oltre il giardino. I pannelli shoji possono essere spinti interamente da parte, per realizzare un'intima unità con il giardino, mentre l'engawa, una sorta di veranda coperta da un tetto spiovente, modula la relazione tra lo spazio interno ed esterno. L'engawa filtra la luce naturale all'interno dell'abitazione proteggendola contemporaneamente dalla pioggia: in estate diventa una parte del giardino, in inverno può essere chiuso fino a costituire un'estensione dello spazio interno.
Un'altro aspetto della casa giapponese, indice dello stile di vita giapponese, è la dicotomia tra pubblico e privato. Nelle case di città (le machya ovvero le tradizionali case di mercanti costruite appunto nei centri urbani), il commercio pubblico avviene sul lato della via cittadina, mentre le stanze sul retro sono riservate alla vita domestica: quanto gli ospiti possono penetrare dipende dalla relazione con la famiglia.

Nella casa giapponese è evidente lo sforzo intellettuale e spirituale volto al processo di semplificazione, al fine di eliminare tutto ciò che non è essenziale in omaggio alla bellezza delle cose umili, poco appariscenti e modeste. E' altresì evidente la ricerca di ampiezza e spaziosità in spazi volutamente piccoli, mentre l'uso di materiali leggeri, fragili, temporanei rimanda a valori eterni.
L'interno dell'abitazione non è concepito per proteggersi dalla natura ma per integrarsi con essa in piena armonia ed equilibrio. I monaci del Buddhismo zen nei periodi Muromachi e Momoyama hanno così ben espresso e formulato questo ideale che l'intera società giapponese aspira a seguirlo. Il risultato sono ambienti che sembrano parlare allo spirito e infondere calma ed equilibrio.
Minimalismo e semplicità sono le caratteristiche che la filosofia zen ha trasmesso ai tradizionali interni giapponesi. Questo effetto si raggiunge attraverso il ritmo delle superfici verticali e orizzontali accostati a materiali e colori naturali.
Gli shoji, i pannelli mobili che formano le pareti interne ed esterne, vengono rimossi in estate per far entrare la brezza e godere della vista del giardino, facendo della casa una sorta di tenda, un padiglione in stretto rapporto con la natura e le stagioni.

 

Tatami, le stuoie

Irori, il focolare domestico
 

Molte case giapponesi hanno un'area riservata alla cerimonia del tè, solitamente nei giardini, in una zona in cui viene ricercata un'atmosfera armoniosa ottenuta tramite l'uso di materiali naturali e un'accurata scelta di mobili ed utensili. L'ideale della modesta e semplice cerimonia ha notevolmente influenzato il design degli edifici nipponici. Mentre tutto il mondo ricerca la durabilità degli edifici e la profusione degli ornamenti, i designers e i costruttori giapponesi esplorano i loro boschi alla ricerca di legni che possano sottolineare l'imperfezione delle cose. L'ideale del wabi-sabi, termine che non ha un vero e proprio equivalente nelle lingue occidentali, può quindi tradursi nell'aspirazione a una ruvida semplicità e a una bellezza che traspare dalle cose semplici e modeste e che riesce a conquistare un equilibrio tra quiete, misura e raffinatezza. Contrariamente alla massima di Le Corbusier secondo cui la casa è "una macchina per abitare", per i designer giapponese la casa è una casa per l'anima.

ELEMENTI DELLA CASA TRADIZIONALE GIAPPONESE

  • Irori è il cuore della casa, spesso la principale fonte di riscaldamento, usato anche per cucinare. Nei minka (le abitazioni tradizionali e le fattorie) viene incassato nel pavimento in legno ricoperto di tatami.
  • Doma, l'ingresso con pavimento di terra, dove si lasciano le scarpe prima di raggiungere il pavimento in legno; l'ingresso è costituito da porte scorrevoli in legno.
  • Engawa, corridoio esterno coperto da tetto spiovente, una sorta di veranda che modula la relazione tra lo spazio interno ed esterno: in estate diventa una parte del giardino, in inverno può essere chiuso fino a costituire un'estensione dello spazio interno. I visitatori devono togliersi le scarpe sul gradino in pietra.
  • Tokonoma, un'alcova posta in una stanza cerimoniale con pavimento in legno leggermente rialzato, utilizzata per esporre un rotolo dipinto, fiori o ceramiche.
  • L'altare buddhista domestico, presente in molte case spesso insieme a un'altare scintoista.
  • Tatami, le stuoie di dimensioni normalizzate che coprono i pavimenti di una casa.
  • Shoji, le porte scorrevoli in legno e carta che portano all'engawa e che permettono alla luce di filtrare.

SALA DA TE'
La sala da tè è piccola, simile a una capanna all'interno del giardino. Qui si svolge la cerimonia del tè, che consiste in una successione di eventi prestabiliti: si incontrano gli invitati, si cammina nel giardino della sala da tè, si eseguono abluzioni, si entra in una stanza simile a una cella, si incontra l'ospite, si ammirano la stanza e gli utensili da tè, si assiste alla preparazione del tè, si fà l'inchino e infine si gustano tè e cibo. Ciascuna parte del rituale va gustata e goduta.

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I 47 ronin

tratto da www.liceoberchet.it

 

Ronin, letteralmente "Uomini Onda", coloro che non avevano più padrone, sede e legami fissi. Questo tipo di samurai aveva una doppia natura, da una parte era un guerriero errante disposto a lavorare per chiunque lo pagasse, dall'altra poteva arrivare ad unirsi ad altri come lui e creare scompiglio nei villaggi saccheggiandoli e creando confusione. Pur continuando a fare parte dell'elevata casta dei samurai i ronin potevano mettersi al servizio del popolo, insegnando arti marziali e di guerra, facendosi assumere come guardie del corpo (yojimbo), oppure difendendo il villaggio da aggressioni esterne.
Se un samurai uccideva un ronin non doveva temere nessuna vendetta e questo rese i ronin una facile preda dei samurai più potenti, i quali nutrivano anche un certo disprezzo per questi guerrieri erranti.

Durante il periodo Tokugawa i ronin aumentarono considerevolmente, conseguenza della soppressione di molti feudi; per il loro spirito autonomo e bellicoso contribuirono alla disfatta del governo Tokugawa, confermandosi guerrieri abili e temibili persino dal più valoroso e potente samurai.

Nel X secolo il termine ronin andava a indicare i contadini che per evitare tasse troppo onerose abbandonavano le loro terre per trasferirsi in regioni non ancore sottomesse dall'autorità o dai monasteri buddisti.


Asano signore di Ako

I 47 Ronin

Storia dei valorosi d' Ako.
Famosa storia di 47 samurai al servizio di Asano, Signore di Ako. Nel 1701 Asano, oltraggiato da Kira, un nobile della corte dello Shogun di Edo, in un impeto di collera lo ferì all'interno del palazzo shogunale. Per aver violato le regole di corte lo shogun Tokugawa Tsunayoshi costrinse Asano a fare seppuku. Dopo la morte del oro padrone i 47 guerrieri suoi fedelissimi, organizzarono una spedizione punitiva per vendicare il loro Signore, attesero per più di un anno, pianificando l'operazione. Il 14 dicembre 1702 attaccarono la residenza di Kira e lo uccisero senza lasciarsi catturare. Lo shogun però ordino loro di fare seppuku come da legge, il 4 febbraio 1703 i suoi fedeli samurai si riunirono al loro amato padrone.
Furono degli eroi per il popolo, simbolo di lealtà, coraggio e onore. Ogni anno sulla tomba dei "47 ronin", situata nel giardino del Tempio Sengaku-ji a Tokyo, i giapponesi arrivano da tutta la nazione per deporre dei fiori in ricordo del loro eroico sacrificio.
Grazie al cinema, teatro e letteratura questa vicenda è diventata popolare in tutto il mondo, caratterizzando in se stessa il vero spirito del bushido.

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il kimono non’ è quello che usiamo noi ma…

www.il kimono -giapponese .it

 

La storia del Kimono

Il kimono ( 着物 letteralmente cosa da indossare quindi abito) è un indumento tradizionale giapponese nonché il costume nazionale giapponese. In italiano è largamente usata anche la grafia adattata kimono dinasta Tangchimono.
In origine il termine "kimono" veniva usato per ogni tipo di abito; in seguito è passato ad indicare specificamente l'abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età.
Il kimono è molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang.

Il kimono è una veste a forma di T, dalle linee dritte, che arriva fino alle caviglie, con colletto e maniche lunghe. Le maniche solitamente sono molto ampie all'altezza dei polsi, fino a mezzo metro. Tradizionalmente, le donne nubili indossano kimono con maniche estremamente lunghe che arrivano fin quasi a terra, chiamato furisode. La veste è avvolta attorno al corpo, sempre con il lembo sinistro sopra quello destro (tranne che ai funerali dove avviene il contrario), e fissato da un'ampia cintura annodata sul retro chiamata obi.

Il kimono viene generalmente abbinato a delle calzature tradizionali giapponesi, specialmente ai sandali geta e zori (simili alle infradito) e a dei calzini che dividono l'alluce dalle altre dita chiamati tabi.

kimono hanfu cinaStoria:

La storia e lo sviluppo del kimono vennero pesantemente influenzati dall'abbigliamento tradizionale cinese del popolo Han, chiamato hanfu, grazie alle ambasciate giapponesi presenti in Cina nel IV secolo.

Fu comunque nell'VIII secolo che il costume cinese divenne popolare in Giappone. Durante il periodokimono heian mo giappone Heian (794–1192) il kimono divenne sempre più simile a quello attuale, anche se all'epoca veniva ancora coperto con una sorta di grembiule chiamato mo.

Durante il periodo Muromachi (1392-1573) il kosode, un kimono kosode giapponeantesisgnano del kimono che però veniva considerato ancora parte della biancheria intima, cominciò ad essere indossato senza la gonna-pantalone hakama sopra di esso e quindi cominciò anche ad essere fissato al corpo con una cintura apposita, la cintura obi. Durante il periodo Edo le maniche iniziarono ad allungarsi, specialmente tra le donne non sposate, e la cintura obi iniziò a diventare più larga, con vari tipi di nodi e allacciature sempre meno semplici.
Da allora la forma base del kimono maschile e femminile è rimasta essenzialmente immutata.

kimono giappone sakura

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Un giro tra le vie in festa… e poi Samba!

Ma come si divertono i giapponesi? 

Durante l'anno hanno diversi Matsuri, grosse feste in occasione di diverse ricorrenze.

Un piccolo giro in una di queste, il Tanabata a Fussa, piccola città di 60.000 abitanti nei pressi di Tokyo 🙂

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l’ imperatore ( TENNO )

Akihito

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Akihito
Imperatore del Giappone
In carica Dal 7 gennaio 1989
Incoronazione 12 novembre 1990
Predecessore Imperatore Hirohito
Successore in carica
 
Nascita Tokyo, Giappone, 23 dicembre 1933 (78 anni)
Padre Imperatore Hirohito
Madre Imperatrice Kōjun
Consorte Imperatrice Michiko
Figli Principe Naruhito
Principe Akishino
Sayako Kuroda

Akihito (明仁 Akihito?) (Tokyo, 23 dicembre 1933) è il 125º ed attuale imperatore (天皇 tennō) del Giappone dal 1989.

Akihito è il primo figlio maschio (e quinto in totale) dell'Imperatore Hirohito e dell'Imperatrice Kōjun (Nagako) ed il primo Imperatore giapponese a salire sul trono senza godere di prerogative "divine", dopo la rinuncia fatta dal padre nel gennaio del 1946 nella celebre "Dichiarazione della natura umana dell'imperatore".

Vita

Nominato Principe Tsugu (継宮 Tsugu-no-miya) da bambino, venne educato da tutori privati e poi frequentò le scuole alla Gakushuin University di Tokyo, scuola dedicata all'aristocrazia, dal 1940 al 1952. Venne separato dai suoi genitori all'età di 3 anni.

Durante i bombardamenti americani su Tokyo nel marzo 1945, lui e suo fratello minore, il Principe Masahito (ora Principe Hitachi), furono messi al riparo in un luogo sicuro fuori Tokyo. Con l'occupazione americana del Giappone alla fine della seconda guerra mondiale, il principe venne istruito in inglese da Elizabeth Gray Vining. Studiò per poco tempo al Dipartimento di Scienze Politiche alla Gakushuin University, senza tuttavia ricevere alcun titolo accademico. In seguito si è specializzato in ittiologia e ha pubblicato numerosi articoli sui pesci della famiglia Gobiidae.

Sebbene fosse l'erede al trono del crisantemo dalla nascita, la sua formale investitura come principe ereditario (立太子の礼 Rittaishi No Rei?) si tenne al Palazzo Imperiale di Tokyo il 10 novembre del 1951.

Nel giugno 1953 Il principe ereditario rappresentò il Giappone all'incoronazione di Elisabetta II d'Inghilterra. Il 10 aprile del 1959 sposò Michiko Shoda (nata il 24 ottobre 1934), la figlia maggiore di Hidesaburo Shoda, il presidente della Nisshin Flour Milling Company. Il matrimonio spezzò la tradizione precedente perché l'imperatrice fu la prima cittadina comune ad andare in sposa ad un membro della famiglia reale.

Il Principe ascese al trono dopo la morte del padre avvenuta il 7 gennaio 1989, diventando ufficialmente il 125º monarca giapponese. La cerimonia ufficiale è poi avvenuta il 12 novembre del 1990.

L'imperatore e l'imperatrice hanno tre figli:

Impegno politico

L'imperatore Akihito e l'imperatrice Michiko del Giappone

Dal momento della sua ascesa al trono l'Imperatore Akihito si è sforzato di avvicinare maggiormente la famiglia imperiale al popolo giapponese. L'Imperatore e l'Imperatrice hanno compiuto visite ufficiali in 18 paesi, così come nelle 47 prefetture del Giappone.

L'Imperatore si è spesso impegnato politicamente. Storiche le scuse nei confronti di Corea e Cina per i danni causati dall'occupazione giapponese o le numerose dichiarazioni di stima nei confronti della Corea. Il 23 dicembre 2001, durante il suo annuale incontro per il compleanno con i giornalisti, l'Imperatore, nel rispondere ad una domanda, sottolineò d'aver provato una "certa affinità con la Corea", e spiegò questa sua sensazione come scaturente dal fatto che la madre dell'imperatore Kammu era coreana. L'imperatore chiosò che gli emigranti coreani in Giappone d'un tempo contribuirono a creare importanti aspetti della cultura e della tecnologia del paese, e fece monito ai suoi connazionali di non dimenticare mai la deplorevole circostanza per cui gli scambi con la Corea non erano mai stati così amichevoli.

Nel giugno 2005, l'imperatore visitò il territorio statunitense di Saipan, sito di una delle più importanti battaglie della seconda guerra mondiale, che durò dal 15 giugno al 9 luglio 1944. Accompagnato dall'Imperatrice Michiko, si trattenne in preghiera e depose fiori presso molti memoriali, rendendo omaggio non solo ai caduti giapponesi, ma anche ai caduti americani, a quelli coreani costretti a combattere per il Giappone, e ai nativi dell'isola. Fu il primo viaggio di un monarca giapponese presso un campo di battaglia.

Il viaggio a Saipan fu accolto con fervore dai giapponesi, come le altre visite imperiali ai memoriali di guerra in Tokyo, Hiroshima, Nagasaki e Okinawa, nel 1995.

Il sistema imperiale di massa

Per molti secoli e fino alla prima metà del Novecento, il sistema imperiale o tennosei (天皇制?), cioè i membri della famiglia imperiale (in particolare l'imperatore), erano figure fortemente permeate di valori religiosi: la stessa persona dell'imperatore era considerata divina e posta su un livello politico-religioso altissimo, quasi ultraterreno. Molti storici hanno spesso sottolineato alcune caratteristiche dell'istituzione imperiale a partire dalla seconda parte dell'era Showa. Akihito è il sovrano che ha segnato anche da un punto di vista generazionale un netto avvicinamento dell'istituzione imperiale al popolo giapponese, partecipandone alla vita sociale e mettendo in gioco la sua figura istituzionale anche attraverso i media, da sempre interessati e attenti osservatori delle vicende della famiglia imperiale: questa nuova configurazione ha indotto molti a parlare di sistema imperiale di massa, vicino ai cittadini e partecipe della vita nazionale.

Etichetta Imperiale

Akihito, come ogni imperatore del Giappone, non viene mai chiamato per nome, ma sempre come Sua Maestà Imperiale (Tennō Heika). La sua era porta il nome di Heisei (平成) (raggiungimento della pace); come di consueto, dopo la sua morte, ci si riferirà all'imperatore Akihito come imperatore Heisei (Heisei Tennō).

Onorificenze

Onorificenze giapponesi

Gran Maestro, Gran Cordone e Collare dell'Ordine del Crisantemo - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro, Gran Cordone e Collare dell'Ordine del Crisantemo
   
Gran Maestro dell'Ordine dei fiori di Paulownia - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro dell'Ordine dei fiori di Paulownia
   
Gran Maestro dell'Ordine del Sol Levante - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro dell'Ordine del Sol Levante
   
Gran Maestro dell'Ordine del Sacro Tesoro - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro dell'Ordine del Sacro Tesoro
   
Gran Maestro dell'Ordine della Cultura - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro dell'Ordine della Cultura
   
Gran Maestro dell'Ordine della Corona Preziosa - nastrino per uniforme ordinaria Gran Maestro dell'Ordine della Corona Preziosa
   

Onorificenze straniere

Membro di I Classe dell'Ordine del Sole Supremo (Afghanistan) - nastrino per uniforme ordinaria Membro di I Classe dell'Ordine del Sole Supremo (Afghanistan)
   
immagine del nastrino non ancora presente Gran Collare di Badr (Arabia Saudita)
   
Grande Stella dell'Ordine al Merito della Repubblica Austriaca (Austria) - nastrino per uniforme ordinaria Grande Stella dell'Ordine al Merito della Repubblica Austriaca (Austria)
  — 1999
immagine del nastrino non ancora presente Collare dell'Ordine di al-Khalifa (Bahrain)
   
Gran Cordone dell'Ordine di Leopoldo (Belgio) - nastrino per uniforme ordinaria Gran Cordone dell'Ordine di Leopoldo (Belgio)
   
Membro dell'Ordine Presidenziale del Botswana (Botswana) - nastrino per uniforme ordinaria Membro dell'Ordine Presidenziale del Botswana (Botswana)
   
Cavaliere di Gran Collare dell'Ordine Nazionale della Croce del Sud (Brasile) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di Gran Collare dell'Ordine Nazionale della Croce del Sud (Brasile)
   
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Valore (Camerun) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Valore (Camerun)
   
Collare dell'Ordine al Merito del Cile (Cile) - nastrino per uniforme ordinaria Collare dell'Ordine al Merito del Cile (Cile)
   
Collare dell'Ordine della Croce di Boyaca (Colombia) - nastrino per uniforme ordinaria Collare dell'Ordine della Croce di Boyaca (Colombia)
   
Collare dell'Ordine Nazionale della Costa d'Avorio (Costa d'Avorio) - nastrino per uniforme ordinaria Collare dell'Ordine Nazionale della Costa d'Avorio (Costa d'Avorio)
   
Cavaliere dell'Ordine dell'Elefante (Danimarca) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine dell'Elefante (Danimarca)
  — 8 agosto 1953
Gran Cordone dell'Ordine del Nilo (Egitto) - nastrino per uniforme ordinaria Gran Cordone dell'Ordine del Nilo (Egitto)
   
immagine del nastrino non ancora presente Membro dell'Ordine della Federazione (Emirati Arabi Uniti)
   
Collare dell'Ordine della Croce della Terra Mariana (Estonia) - nastrino per uniforme ordinaria Collare dell'Ordine della Croce della Terra Mariana (Estonia)
  — 2007
Cavaliere dell'Ordine di Salomone (Etiopia) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine di Salomone (Etiopia)
   
Comandante Capo della Legion d'Onore (Filippine) - nastrino per uniforme ordinaria Comandante Capo della Legion d'Onore (Filippine)
   
Comandante di Gran Croce con Collare dell'Ordine della Rosa Bianca (Finlandia) - nastrino per uniforme ordinaria Comandante di Gran Croce con Collare dell'Ordine della Rosa Bianca (Finlandia)
   
Cavaliere di Gran Croce della Legion d'Onore (Francia) - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di Gran Croce della Legion d'Onore (Francia)
   
Classe speciale della Gran Croce dell'Ordine al Merito di Germania (Germania) - nastrino per uniforme ordinaria Classe speciale della Gran Croce dell'Ordine al Merito di Germania (Germania)
   
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— 9 marzo 1982[1]
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  — 22 maggio 2007
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  — 1953
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  — 2001
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  — 1993
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  — 24 giugno 1998
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  — 2 giugno 1953
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Kamikaze IL vento divino

tratto da wikipedia

«  Voi siete il tesoro della nazione; con lo stesso spirito eroico dei kamikaze, battetevi per il benessere del Giappone e per la pace nel mondo. »

 
(Dalla lettera scritta dall'ammiraglio Takijiro Onishi, principale fautore dei kamikaze, e indirizzata ai giovani giapponesi, prima di suicidarsi il 15 agosto 1945.[1])

Kamikaze (神風) è una parola giapponese, di solito tradotta come vento divino (kami significa "divinità" — è un termine fondamentale nello shintoismo — e kaze sta per "vento" ka significa inspirare e ze significa espirare[2] ). È il nome dato ad un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione Mongola inviata da Kublai Khan nel 1281. In Giappone la parola "kamikaze" viene usata solo per riferirsi a questo tifone. Internazionalmente questa parola viene generalmente riferita agli attacchi suicidi eseguiti dai piloti giapponesi (su aerei carichi di esplosivo) contro le navi alleate verso la fine della campagna del pacifico nella seconda guerra mondiale.

Gli attacchi aerei furono l'aspetto predominante e meglio conosciuto di un uso più ampio di attacchi — o piani — suicidi da parte di personale giapponese, inclusi soldati che indossavano esplosivo ed equipaggi di navi cariche di bombe. In giapponese il termine usato per le unità che eseguivano questi attacchi è tokubetsu kōgeki tai (特別攻撃隊, letteralmente "unità d'attacco speciale"), solitamente abbreviato in tokkōtai (特攻隊). Nella seconda guerra mondiale le squadre suicide provenienti dalla Marina Imperiale Giapponese furono chiamate shinpū tokubetsu kōgeki tai (神風特別攻撃隊), dove shinpū è la lettura-on (cinese) dei kanji che formano la parola "kamikaze".

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la parola kamikaze è stata applicata ad una varietà più ampia di attacchi suicidi, in altre parti del mondo ed in altre epoche. Esempi di questi includono Selbstopfer nella Germania nazista durante la seconda guerra mondiale ed attentati suicidi di natura terroristica e militare. L'uso internazionale corrente del termine kamikaze per identificare attentati suicidi di natura terroristica – o di qualsiasi altra natura – non viene adottato dalla stampa nipponica, che invece gli preferisce jibaku tero (自爆テロ), abbreviazione della locuzione anglo-giapponese jibaku terorisuto (自爆テロリスト, "terroristi autoesplodenti").

Seconda guerra mondiale

Situazione

Le forze giapponesi, dopo la loro sconfitta nel 1942 alla battaglia delle Midway avevano perso l'iniziativa che avevano all'inizio della Guerra del Pacifico (conosciuta ufficialmente in Giappone come "Grande Guerra dell'Asia Orientale"). Nel 194344 le forze alleate, sostenute dalla potenza industriale e dalle risorse naturali degli Stati Uniti d'America stavano avanzando costantemente verso il Giappone.

I caccia giapponesi erano ormai messi in minoranza e surclassati dai nuovi caccia USA, particolarmente l'F4U Corsair e il P-51 Mustang e, a causa delle perdite in combattimento, i piloti di caccia abili stavano diventando sempre più rari. Infine la scarsezza di parti di ricambio e di carburante rendevano problematiche anche le normali operazioni di volo.

Il 15 luglio 1944, l'importante base giapponese di Saipan venne occupata dalle forze alleate. Ciò rese possibile l'uso dei bombardieri a lungo raggio B-29 Superfortress per colpire direttamente il Giappone. Dopo la caduta di Saipan l'alto comando giapponese predisse che il prossimo obiettivo degli alleati sarebbero state le Filippine, strategicamente importanti per la loro posizione tra il Giappone ed i campi petroliferi del sud est asiatico.

Questa predizione si avverò il 17 ottobre 1944 quando le forze alleate assaltarono l'isola di Suluan iniziando la battaglia del golfo di Leyte. Alla Prima Flotta Aerea della Marina Imperiale Giapponese con base a Manila venne assegnato l'incarico di assistere le navi giapponesi che avrebbero tentato di distruggere le forze alleate nel golfo di Leyte. La Prima Flotta Aerea disponeva di soli 40 aerei: 34 Mitsubishi Zero imbarcati su portaerei, e 3 aerosiluranti Nakajima B6N, 1 Mitsubishi G4M, 2 bombardieri Yokosuka P1Y e un aeroplano da ricognizione. Il compito che dovevano affrontare le forze giapponesi pareva totalmente impossibile. Il comandante della Prima Forza Aerea, il vice ammiraglio Takijiro Onishi decise di formare una "Forza d'Attacco Speciale Kamikaze"; Onishi divenne il "padre dei kamikaze". In un incontro all'aeroporto di Mabacalat (Clark Air Base) vicino a Manila, Onishi che stava visitando i quartieri del 201º Corpo Navale di Volo suggerì: «Non penso che ci sia un'altra maniera di eseguire l'operazione che mettere una bomba da 250 kg su uno Zero e farlo sbattere contro una portaerei per metterla fuori combattimento per una settimana.»

La prima unità kamikaze

Il comandante Asaiki Tamai chiese ad un gruppo di abili studenti di volo che aveva personalmente addestrato di unirsi alla forza di attacco speciale. Tutti i piloti alzarono entrambe le mani, dando pertanto l'assenso ad unirsi all'operazione. Più tardi Asaiki Tamai chiese al tenente Yukio Seki di comandare la forza di attacco speciale.

Si dice che Seki Yukio abbia chiuso gli occhi ed abbassato la testa per dieci secondi prima di chiedere: «La prego di lasciarmelo fare».

Yukio Seki divenne pertanto il 24° pilota kamikaze ad essere scelto.

Dunque, il 20 ottobre 1944 è la data di nascita del reparto kamikaze, formato da 24 piloti del 21º Stormo:

  • Unità d'Attacco Speciale Tokkoutai (abbreviazione di Tokubetsu Kougekitai) "Shinu"
    • Unità Shikishima (Isola Bella)
    • Unità Yamato (Razza Giapponese)
    • Unità Asahi (Sol Levante)
    • Unità Yama-zakura (Fiori di Ciliegio Selvatico di Montagna)

Questi nomi furono tratti da un poema patriottico (waka o tanka) dello studioso giapponese classico Motoori Norinaga, scritta nel XVIII secolo:

Shikishima no
Yamatogokoro wo
Hito towaba
Asahi ni niou
Yama-zakura bana

(in italiano: Se mi chiedete cos'è l'anima della razza giapponese della bella isola, rispondo che è come fiore di ciliegio selvatico ai primi raggi del sol levante, puro, chiaro e deliziosamente profumato.)

I primi attacchi

Un Mitsubishi Zero in procinto di colpire la USS Missouri.

Almeno una fonte cita un episodio di aeroplani giapponesi scontratisi con le portaerei USS Indiana e USS Reno a metà del 1944, considerandoli come i primi attacchi kamikaze della seconda guerra mondiale[3], ma le prove che questi scontri fossero intenzionali e non collisioni accidentali, possibili durante intense battaglie aeronavali, sono scarse.

Il ponte e torrette di prua della HMAS Australia, nel settembre 1944. L'ufficiale a destra è il capitano Emile Dechaineux, ucciso durante il primo attacco kamikaze il 21 ottobre 1944.

Secondo le testimonianze del personale alleato, il primo attacco kamikaze — nel senso generalmente accettato del termine — non venne eseguito dall'unità di Tamai, ma da un pilota giapponese non identificato. Il 21 ottobre 1944 l'ammiraglia della Marina Reale Australiana, venne colpita da un aeroplano giapponese armato con una bomba da 200 kg (441 libbre). L'aeroplano colpì le sovrastrutture dell'Australia sopra il ponte spargendo carburante e detriti su una vasta area. La bomba non esplose, altrimenti la detonazione avrebbe potuto effettivamente distruggere la nave. Nell'attacco morirono almeno 30 membri dell'equipaggio, incluso l'ufficiale comandante, il capitano Emile Dechaineux; tra i feriti ci fu il commodoro John Collins, comandante della forza australiana.

Il 25 ottobre l'Australia venne colpito nuovamente e forzato a ritirarsi nelle Nuove Ebridi per le riparazioni. Quello stesso giorno cinque caccia Zero condotti da Seki attaccarono una portaerei di scorta: la USS St. Lo. Sebbene solo un kamikaze riuscì a colpirla con efficacia, la bomba a bordo dell'aereo causò un incendio che fece esplodere il deposito bombe, affondando la portaerei. Altri colpirono e danneggiarono altre navi alleate. Poiché molte portaerei americane avevano ponti di volo in legno, furono considerate più vulnerabili agli attacchi kamikaze rispetto alle portaerei britanniche della Flotta Britannica del Pacifico, dotate di ponti in acciaio.

L'Australia ritornò nella zona di combattimento nel gennaio 1945, prima della fine della guerra subì (e sopravvisse) a sei diversi attacchi di kamikaze, con una perdita totale di 86 vite. Tra le navi principali che sopravvissero ad attacchi multipli di kamikaze durante la seconda guerra mondiale, vanno ricordate l'Intrepid e la Franklin, entrambe della classe Essex.

L'ondata principale degli attacchi kamikaze

La USS Columbia attaccata da un kamikaze fuori dal Golfo di Lingayen, 6 gennaio 1945

Il kamikaze colpisce la Columbia alle 17:29. L'aeroplano e la bomba penetrano due ponti prima di esplodere, uccidendo 13 uomini e ferendone 44.

I primi successi, come l'affondamento della St. Lo portarono ad uno sviluppo immediato del programma e nel giro dei mesi successivi vennero lanciati oltre 2000 attacchi suicidi. Nel computo vanno compresi le azioni di guerra eseguite con le bombe razzo Yokosuka MXY7 Ohka ("Bocciolo di ciliegio", ribattezzata baka: "folle" dagli statunitensi), costruite appositamente per questo scopo, e gli assalti condotti con piccole barche imbottite d'esplosivo, o torpedini guidate dette kaiten.

Gli aerei kamikaze espressamente costruiti come tali, a differenza dei caccia o bombardieri in picchiata convertiti allo scopo, non possedevano meccanismi di atterraggio. Un aeroplano progettato specificamente, il Nakajima Ki-115 Tsurugi, era realizzato con una struttura in legno, semplice da costruire e pensato per utilizzare le scorte di motori rimanenti. Il carrello non era retrattile e veniva sganciato poco dopo il decollo per consentire il riutilizzo con altri aeroplani.

Il picco dell'attività venne toccato il 6 aprile 1945 durante la battaglia di Okinawa, quando varie ondate di aeroplani condussero centinaia di attacchi durante l'Operazione Kikusai (Crisantemi galleggianti). A Okinawa gli attacchi dei kamikaze si focalizzarono all'inizio sui cacciatorpediniere in servizio di protezione e quindi sulle portaerei al centro della flotta. L'offensiva, per cui vennero utilizzati 1465 aeroplani, seminò distruzione: i resoconti delle perdite variano, ma per la fine della battaglia almeno 21 navi americane erano state affondate dai kamikaze, insieme a navi alleate di altra nazionalità e dozzine di altre erano state danneggiate.

L'offensiva comprese la missione di sola andata della nave da battaglia Yamato, che non riuscì a raggiungere le vicinanze dell'operazione perché affondata dagli aerei alleati a diverse centinaia di miglia di distanza (Vedi Operazione Ten-Go).

A causa della scarsità del loro addestramento, i piloti kamikaze tendevano ad essere facili prede per gli esperti piloti alleati, che pilotavano aerei di molto superiori. Anche gli equipaggi navali alleati iniziarono a sviluppare tecniche per neutralizzare gli attacchi dei kamikaze, come sparare con i cannoni navali di grosso calibro nel mare lungo la direzione di attacco, per poterli inondare. Queste tattiche non potevano essere usate contro gli Okha ed altri attacchi veloci portati in picchiata dall'alto, ma quest'ultimi aerei erano più vulnerabili al fuoco antiaereo e ai caccia Alleati.

Nel 1945 l'esercito giapponese iniziò ad accumulare scorte di centinaia di Tsurugi, di altri aerei a propulsione, di Ohka e di navi suicide per fronteggiare le forze alleate, che si aspettavano avrebbero invaso il Giappone. Pochi di essi vennero usati.

L'uso come difesa contro i raid aerei

Quando il Giappone iniziò ad essere soggetto al bombardamento strategico da parte dei bombardieri B-29 Superfortress dopo la cattura di Iwo Jima l'esercito giapponese tentò di usare attacchi suicidi contro questa minaccia.

Comunque questa si dimostrò molto meno fruttuosa e pratica, poiché un aeroplano era un bersaglio molto più piccolo, manovrabile e veloce di una tipica nave da guerra. Aggiungendo a ciò il fatto che il B-29 possedeva un formidabile armamentario difensivo, gli attacchi suicidi contro questo tipo di aeroplano richiedevano un'abilità di volo considerevole per avere successo. Ciò era contrario allo scopo fondamentale di usare piloti sacrificabili e incoraggiare i piloti abili a balzare fuori prima dell'impatto era inefficace causando spesso la morte di personale vitale che calcolava male il tempo di uscita e falliva l'impatto e/o ne restava ucciso.

Effetti

Alla fine della seconda guerra mondiale il servizio aeronautico della marina giapponese aveva sacrificato 2.526 piloti kamikaze, mentre quello dell'esercito ne aveva sacrificati 1.387. Secondo un dato ufficiale, di fonte giapponese, le missioni affondarono 81 navi e ne danneggiarono 195, ammontando (rispetto al conteggio giapponese dei danni inflitti) all'80% delle perdite USA durante le fasi finali della guerra nel Pacifico. Secondo una fonte delle forze aeree americane:

  « Approssimativamente 2.800 attaccanti kamikaze affondarono 34 navi della marina, ne danneggiarono altre 368, uccisero 4.900 marinai e ne ferirono oltre 4.800. Nonostante l'allarme dei radar, l'intercettazione in volo ed un massiccio fuoco antiaereo il 14% degli attacchi Kamikaze giungeva fino all'impatto contro una nave; circa l'8,5% delle navi colpite dagli attacchi kamikaze affondò »
 
(Airforcehistory[4].)

Tradizioni e folklore

L'esercito giapponese non ebbe mai problemi nel reclutare volontari per le missioni kamikaze; in effetti ci fu il triplo di volontari rispetto agli aerei disponibili. In conseguenza di ciò i piloti esperti venivano scartati, in quanto considerati meglio impiegati in ruoli difensivi e di insegnamento. Il pilota kamikaze medio aveva circa 20 anni e studiava scienze all'università. Le motivazioni nell'offrirsi volontario andavano dal patriottismo, al desiderio di portare onore alle proprie famiglie, al mettersi alla prova — in maniera estrema.

Venivano spesso tenute cerimonie speciali, immediatamente prima della partenza delle missioni kamikaze, nelle quali ai piloti che portavano preghiere delle loro famiglie venivano date decorazioni militari. Queste pratiche aiutavano a romanzare le missioni suicide, attraendo pertanto altri volontari. I kamikaze giapponesi inoltre indossavano la nota bandana bianca con dei motivi patriottici disegnati, chiamata hachimaki.

Secondo la leggenda i giovani piloti delle missioni kamikaze spesso volano a sud-ovest dal Giappone sopra il monte Kaimon, alto 922 metri. La montagna è anche detta "Satsuma Fuji" (indicando una montagna bella simmetricamente, come il Monte Fuji, ma situata nella regione di Satsuma). I piloti delle missioni suicide vedevano questo guardandosi alle spalle, la montagna più a sud del Giappone mentre erano in aria, dicendo addio al proprio paese e salutavano la montagna.

I residenti dell'isola di Kikajima, ad est di Amami Ōshima, dicono che i piloti delle missioni suicide lanciavano fiori dall'aria mentre partivano per la loro missione suicida. Presumibilmente le colline sopra l'aeroporto di Kikajima hanno campi di fiordalisi che sbocciano all'inizio di maggio[5].

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Il cibo nella cultura nipponica

L'arte culinaria nel Giappone tradizionale

L'atto di mangiare, in Giappone, non è un semplice gesto per nutrirsi bensì è parte intrinseca della cultura nipponica. Il modo di preparazione, di cottura e di consumo è un'arte dove l'estetica, la tradizione, la religione e la storia sono altrettanto importanti, se non di più che il cibo stesso. Ogni fase nella preparazione e presentazione di un piatto è come il movimento di una sinfonia, e un pasto giapponese riflette la più intima natura di questo popolo, il suo amore per una bellezza disciplinata, il suo rispetto per ogni forma d'espressione artistica.
Contrariamente ai costumi occidentali che tentano di mescolare i sapori, i piatti sono costituiti da differenti alimenti ognuno dei quali deve possedere ciascuno la propria individualità di gusto e di aspetto.
I consumi alimentari dei giapponesi hanno profonde radici nella loro storia, e nella natura della loro terra e del loro mare. Le isole giapponesi sono circondate da acque ricchissime di pesce, mentre solo una piccola parte delle terre è adatta alla coltivazione, di modo che – con un paio di eccezioni – il pesce e altri prodotti ittici giocano un ruolo primario nell'alimentazione quotidiana e, a Tokyo al mercato di Ameyoko vicino al parco di Ueno, al mercato centrale di Tsukiji, le bancarelle abbondano di sarde, di piccoli pesci sott'olio, di alghe, di molluschi ecc. La vendita all'incanto dei tonni alle prime ore dell'alba è uno spettacolo al quale ogni turista dovrebbe assistere.
Delle eccezioni suddette la più importante è il riso, pilastro dell'alimentazione giapponese fin dall'antichità, e anche oggi presente in tavola ad ogni pasto, cominciando dalla prima colazione.
Il Giappone non sarebbe il Giappone senza il gohan, che significa sia pasto che riso ed è presente dalla prima colazione alla cena.
Le porzioni sono sempre minuscole, preferendo moltiplicare così i sapori come se ogni pasto fosse un campionario da degustazione.
Qui, non si ricercano i prodotti esotici o fuori stagione, poiché ogni stagione apporta le proprie specialità.

La tradizione culinaria giapponese risale a tempi lontani

Tra il VI e il VII secolo della nostra era, il Giappone è stato largamente influenzato dalle sue strette relazioni con la Cina, quando si importavano il tè verde e i fagioli di soia. La cucina cinese, molto più complessa e più sofisticata, era influenzata dal buddhismo, una religione basata sulla valorizzazione e il rispetto qualsiasi forma di vita – la carne era bandita dall'alimentazione quotidiana in quanto colpiva la vita animale. Tutta questa filosofia ha segnato il menu tradizionale. Questa influenza ebbe fine a metà del IX secolo con la caduta della dinastia Tang. Poi giunse l'età d'oro del Giappone, chiamata età Heian, dal nome di Heian-Kyo, l'antica capitale del Giappone (l'attuale Kyoto).
Per 400 anni, la vita sociale e l'arte in generale furono al loro apogeo. Si elaborò un codice per il cerimoniale e, se la tavola era ancora frugale, la disposizione dei piatti e degli alimenti entrò a far parte della rivoluzione dell'arte e dell'estetismo visivo. Più tardi, l'epoca dei samurai introdusse l'eleganza e l'arte di mangiare divenne un'arte, una raffinatezza e una cerimonia.
I primi contatti con il mondo occidentale non furono indolori. Parimenti a quello cinese, il popolo nipponico considerava gli occidentali come dei barbari, e per far loro piacere, creò a metà del XVI secolo il tempura, traendo ispirazione da alcuni piatti fritti portoghesi e adottando questo principio con un'arte consumata e una leggerezza di tessitura che andavano ben oltre alla versione originale. Non è che alla fine del XIX secolo, dopo una lunga frequentazione del mondo in generale, che la cucina giapponese abbandò la dieta vegetariana.

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O-SENSEI

Morihei Ueshiba (植芝盛平 Ueshiba Morihei?) (Tanabe, 14 dicembre 1883Tokyo, 26 aprile 1969) è stato un artista marziale giapponese. Considerato uno dei più grandi maestri di arti marziali del XX secolo, è stato il fondatore dell'Aikidō e viene definito Ōsensei (gran maestro) dagli aikidōka.

La vita

Bambino esile e molto fragile viene spinto dal padre, uomo di politica, a praticare il sumo e il nuoto per irrobustire il proprio corpo. Comincia a praticare con costanza e dedizione le arti marziali a seguito di una vicenda che vede coinvolto il padre picchiato a sangue dai suoi avversari politici. Decide quindi di imparare le arti marziali per difendere se stesso e i suoi cari.

Frequenta varie scuole e impara diversi stili di Jūjutsu e di Bukijutsu. L'arte che segnerà il suo cammino marziale sarà però il Daito-Ryu Aiki Jujutsu, l'arte dai samurai della famiglia Takeda.
Il suo principale maestro fu Takeda Sōkaku, considerato da alcuni uno degli ultimi veri samurai, che gli insegnò il Daitō ryū conferendogli il grado che sta sotto solo al Menkyō kaiden e il certificato di maestro di Daitō ryū Aiki Jūjutsu. Aprirà quindi un proprio dōjō a Tōkyō dove inizierà a insegnare l'Aiki Budō, specchio del Daitō ryū e scheletro dell'Aikidō. Fonderà presto l'associazione Aikikai Foundation e il Kobukan dōjō ne diventerà l'honbu dōjō.

Durante il suo soggiorno a Tōkyō verrà a conoscenza di una tragica notizia che vedrà coinvolto suo padre, ormai in fin di vita. Deciderà quindi di partire per Tanabe ed accorrere al capezzale del padre morente, ma durante il viaggio, incontrerà una persona che segnerà profondamente la sua vita, il suo cammino spirituale e l'arte dell'Aikido. Costui fu Ōnisaburō Deguchi, capo di una setta shintoista chiamata Ōmoto-kyō. Deciderà quindi di recarsi ad Ayabe, nella sede dell'Ōmoto-kyō. Durante il suo soggiorno ad Ayabe suo padre muore. Morihei rimarrà ad Ayabe per diversi anni diventando la guardia del corpo di Ōnisaburō Deguchi e partecipando insieme alla setta a diverse vicende.

Successivamente si recò ad Iwama, nella prefettura di Ibaraki, dove fondera l'Ibaraki dōjō e l'Aiki Jinja, il tempio dell'Aikidō. Qui fonderà l'arte, la filosofia e la religione conosciuta col nome di Aikidō e si dedicherà allo studio del Budō e all'agricoltura.

Da questo periodo in poi verranno narrati diversi aneddoti che vedranno protagonista Ueshiba in sbalorditive dimostrazioni anche di carattere sovrannaturale, testimoniate da diversi suoi allievi. Egli infatti da questo momento si presenterà come l'incarnazione di una divinità shintoista, quale Il Re Dragone e affermerà di dover compiere una missione: portare l'armonia nel mondo.

Morirà il 26 aprile 1969 per un cancro allo stomaco.

Evoluzione dell’ispirazione: da “daitoryu-AiKi-Jutsu” ad “Ai-Ki-Do”

Ueshiba nutrì sempre un forte orientamento verso il sentimento religioso shintoista ed esprimeva la propria spiccata vocazione a coltivare la propria spiritualità in forme molto personali, con rituali e pratiche Shintoiste che avevano radici antiche e che spesso erano di difficile comprensione anche per i suoi più stretti allievi ed amici.
Ma fu durante il periodo del suo soggiorno ad Ayabe e soprattutto dopo la sofferta morte del padre che morì senza che lui potesse rivederlo, che la vita del fondatore dell'Aikido ebbe una "svolta" spirituale determinante a seguito dell'incontro con un'importante personalità nipponica dei primi del novecento, Onisaburo Deguchi, sacerdote di una setta nota come "Omoto-kyo", di cui il fondatore divenne amico e discepolo e la cui frequentazione ebbe un'importanza fondamentale nello svuiluppo della concezione dell'Aikido da parte di Morihei Ueshiba.
Onisaburo Deguchi, patriarca della religione Omoto, fu anche il principale responsabile della parentesi politica della vita del fondatore dell'Aikido, il quale all'età di 36 anni si lasciò indurre da Deguchi a seguirlo nei suoi progetti esagerati, se non folli, miranti ad espandere al di fuori dei confini del Giappone l'influenza del partito politico Omoto da lui fondato e della corrispondente religione Omoto, spingendosi in Asia fino alla Mongolia dove trovarono pane per i loro denti e tale avventura politica su base religiosa fallì miseramente.
Avventura collegata alla militanza del fondatore dell'Aikidō nel partito politico collegato alle ideologie sociali della religione Omoto, che gli costò quasi la vita, essendosi salvato da sicura morte unicamente per il miracoloso intervento "in extremis" del consolato giapponese, intervenuto all'ultimo momento quando nonostante si tramandino gesta epiche e fatti di combattimenti strabilianti ad opera del fondatore dell'Aikido sul territorio continentale asiatico, ormai catturati e arrestati dalle autorità cinesi, la loro fine sembrava già segnata ed imminente.
Dopo queste manifestazioni di incontinenza politica, gli aderenti al partito Omoto pare fossero stati tenuti di mira per un po' di tempo in Giappone e fossero anche socialmente osteggiati, ma il fondatore dell'Aikidō pare non abbia sofferto troppo di ciò, poiché dopo tale parentesi si disgiunse stabilmente dalla politica per immergersi completamente nella sua ricerca spirituale, da cui trasse infine i presupposti per questa nuova ed in un certo senso rivoluzionaria disciplina consistente in quell'innovativa arte marziale spirituale denominata Aikidō.

Onorificenze

Cavaliere di IV Classe dell'Ordine del Sol Levante - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di IV Classe dell'Ordine del Sol Levante
   
Medaglia d'Onore con nastro viola - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'Onore con nastro viola

 

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